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Episodio del podcast

Dopamina e ricompense: come le app hackerano il nostro cervello

4 settembre 2022 Podcast Episodio 108 Stagione 2
Dopamina e ricompense: come le app hackerano il nostro cervello

Descrizione

Tante delle tecnologie che utilizziamo ogni giorni si basano sulle conoscenze più recenti di cui disponiamo. Tra le scienze che più vengono impiegate negli ultimi tempi, quelle legate al funzionamento del cervello sono probabilmente le più diffuse ma anche le meno conosciute da noi utilizzatori.


Fonti:
L’era della dopamina (Anna Lembke) - https://amzn.to/3AOhsyT
https://sitn.hms.harvard.edu/flash/2018/dopamine-smartphones-battle-time/
https://turnagain.alaskapacific.edu/smartphones-delivering-your-daily-dose-of-dopamine-in-a-convenient-pocket-sized-package/

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Crediti

Sound design - Alex Raccuglia
Voce intro - Maria Chiara Virgili
Voce intro - Spad
Musiche - Kubbi - Up In My Jam, Light-foot - Moldy Lotion, Creativity, Old time memories
Suoni - Zapsplat.com
Cover e trascrizione - Francesco Zubani

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Quello che segue è lo script originale dell'episodio.

Introduzione

Ti è mai capitato di prendere lo smartphone, controllare se ci sono notifiche, posarlo e ricontrollare dopo una manciata di secondi?

Beh, se è così, sappi che non sei l’unico, e sappi anche che questo comportamento non dipende unicamente da te, ma anche, anzi soprattutto, da come sono progettate le app all’interno degli smartphone.

Siti, social network e app in generale, infatti, sono tutti studiati per spingerci ad utilizzarli il più possibile e per ottenere questo risultato, essi sfruttano a proprio vantaggio dei meccanismi naturali presenti nel nostro cervello, proprio come gli hackers sfruttano a proprio vantaggio i meccanismi presenti nel software e nell’hardware.

Nell’episodio di oggi di Pensieri in codice, parliamo dunque di dopamina, di ricompense e di come gli smartphone hackerano il nostro cervello.

Sigla.

La guerra per l’attenzione

Lo smartphone è ormai diventato una sorta di appendice artificiale per ciascuno di noi. Sempre nella nostra tasca o nella nostra borsa, lo consultiamo centinaia di volte al giorno e lo utilizziamo per le più disparate attività.

Io stesso, se provo a verificare nell’app che misura il tempo di utilizzo del mio smartphone, vedo che tranquillamente ogni giorno trascorro dalle 2 alle 4 ore con lo schermo acceso, sblocco almeno un centinaio di volte e ricevo almeno un centinaio di notifica. E questo nonostante mi sia impegnato per ridurre al minimo le attività superflue.

Nessuno ormai può più fare a meno di questo strumento tecnologico, sempre se non vuole restare indietro rispetto agli altri sotto molti aspetti e punti di vista. E molti hanno sviluppato perfino una sorta di attaccamento maniacale o dei disturbi specifici.

Esistono studi che mostrano come alcuni soggetti soffrano di ansia o di panico nel momento in cui non hanno accesso al proprio smartphone o, in certi casi, alla connessione ad Internet. Altri studi, invece, evidenziano come a volte si abbia la sensazione di aver sentito una vibrazione, solo per poi rendersi conto che, in realtà, il telefono nella nostra tasca o sulla scrivania non mostra alcuna notifica.

Si tratta di due disturbi, questi, che hanno persino un nome. Il primo si chiama Nomophobia, che sta per No mobile phone phobia. Mentre il secondo è chiamato sindrome della vibrazione fantasma e devo confessare che a me è capitato più di una volta di immaginarmi una vibrazione.

Ma ad ogni modo, il nostro attaccamento per lo smartphone non è per nulla sorprendente, se si analizzano un po’ più da vicino i meccanismi che lo determinano.

Innanzitutto, immagino sia chiaro che, quando parlo di smartphone, non mi riferisco all’apparecchio in sé, ma alle app che vi sono all’interno: un telefono spento, per quanto possa avere un’estetica affascinante, non credo possa costituire una grande attrattiva per nessuno.

Per le app, invece, la storia è diversa. Il fatto che esse siano progettate per attirare in ogni modo la nostra attenzione, non dovrebbe essere una novità. Almeno spero.

In linea di principio, un’app può avere appena una manciata di obiettivi. Mi riferisco ad app commerciali, ovviamente: quelle app che vengono sviluppate per portare un ritorno di investimento significativo a chi le ha finanziate, ok? Parlo di social network, di e-commerce, cose di questo tipo. Non l’app dell’oratorio o quella che fa funzionare la bilancia smart, quelle sono fuori dal mio ragionamento.

Per le app commerciali, dunque, gli obiettivi sono: vendere prodotti o servizi al maggior numero di persone, mostrare pubblicità al maggior numero di persone, raggruppare il maggior numero di persone per poi portarli a ad un esborso di qualche tipo (economico o anche di impegno). Non c’è molto altro.

E per ottenere uno qualsiasi di questi risultati, o magari più di uno, queste app devono in qualche modo attirare la nostra attenzione. Devono portarci a trascorrere il maggior numero di minuti, o possibilmente di ore, utilizzandole.

Ecco perché di tanto in tanto l’app di Amazon ci invia quella notifica Abbiamo pensato che ti possa interessare un dosatore di croccantini per cani, oppure Linkedin invia un po’ di email con oggetto La tua carriera sta andando alla grande o Conosci Tizio? Vuoi aggiungerlo alla tua rete?.

Espedienti del genere sono studiati proprio per attirare la nostra attenzione che magari da ben 24 ore non era rivolta verso la piattaforma giusta. Purtroppo, però, come vedremo fra poco, questi comportamenti sono solo la punta di un iceberg che nasconde meccanismi psicologici molto più complessi e che servono ad attivare specifiche aree del nostro cervello.

La Dopamina

Tutto ruota intorno ad una sostanza chiamata Dopamina.

Ora, io non sono un esperto di neuroscienze, quindi proverò a riassumere il concetto nel modo più semplice possibile per come l’ho capito. Poi nel caso, ogni correzione sarà apprezzata.

La Dopamina è una sostanza chimica prodotta dal cervello, un neurotrasmettitore endogeno, che ha molte funzioni, tra cui anche quella di spingere l’essere vivente verso certi comportamenti piuttosto che altri. In pratica, da questo punto di vista, è quella che normalmente chiamiamo motivazione.

Un certo quantitativo di questa sostanza è normalmente sempre prodotta in varie aree del cervello, tale quantità è detta baseline e, in pratica ne rappresenta il valore di default. Ma, a seguito di determinate situazioni o stimoli, tale produzione può variare, aumentando o diminuendo.

Ad esempio, della Dopamina viene rilasciata quando mangiamo qualcosa che ci piace, quando siamo con persone a cui vogliamo bene, quando riceviamo una bella sorpresa, quando facciamo esercizio fisico. Mentre al contrario, il rilascio di Dopamina diminuisce quando falliamo in qualcosa o quando una nostra aspettativa viene disattesa.

La cosa interessante è che buona parte di questo neurotrasmettitore attraversa dei percorsi del cervello che sono chiamati circuito della ricompensa e che, in pratica, producono una sensazione di piacere. Questo fatto .crea una sorta di legame tra l’azione o la situazione che ha provocato il rilascio e la sensazione di benessere e ciò ci spinge a ripetere nuovamente l’esperienza.

In pratica, assaggiamo un pezzo di cioccolato, c’è un rilascio di Dopamina, proviamo piacere, vogliamo altro cioccolato.

Sempre restando sul cibo, alcuni studi hanno mostrato come la Dopamina sia responsabile anche dell’istinto di nutrirsi. Cavie da laboratorio a cui sono stati dati metodi alternativi per l’ottenimento massiccio di Dopamina, infatti, hanno semplicemente smesso di cercare il cibo. Se venivano imboccati, masticavano, ma altrimenti non facevano nemmeno qualche passo per raggiungere il mangime.

Un altro punto interessante è che il circuito della ricompensa è responsabile anche del dolore, delle sensazioni spiacevoli. Il cervello utilizza gli stessi percorsi per elaborare entrambe le sensazioni. In pratica, quindi, piacere e dolore sono due facce della stessa medaglia, due fattori opposti, antagonisti, che determinano una sorta di equilibrio.

In situazione di riposo, cioè quando la Dopamina è alla sua baseline, la bilancia piacere/dolore è in equilibrio nel centro, ma se la Dopamina aumenta, allora la bilancia si abbatte dal lato del piacere, innescando le sensazioni positive a cui abbiamo accennato prima. Se, invece la Dopamina diminuisce, la bilancia si abbatte dal lato del dolore, provocando, al contrario, sensazione negative come tristezza, abbattimento, depressione e simili.

Dopamina tascabile

In tutto questo, il nostro smartphone è, di fatto, un distributore tascabile di Dopamina.

Tutte le interazioni che noi consideriamo positive, infatti, provocano in noi un rilascio di Dopamina. E ciò vale tanto per quelle reali quanto per quelle virtuali. Solo che, rispetto al mondo materiale, in quello immateriale le possibilità sono infinite.

In presenza, infatti, possiamo interagire con un numero limitato di persone o cose. Ma online, questi numeri crescono a dismisura. I cataloghi che possiamo consultare, sono immensi. I gruppi sociali a cui possiamo partecipare sono infiniti. Le interazioni che possiamo somministrare o ricevere sono potenzialmente milioni.

Ed ecco che ogni notifica, ogni acquisto, ogni like, ogni commento, si trasformano in un fiume di Dopamina che inonda il nostro circuito della ricompensa e che produce un rinforzo positivo che ci spinge istintivamente a ricercare quegli stessi stimoli per ricevere quelle stesse ricompense.

Come se questo non fosse già abbastanza, poi, sappi che dobbiamo anche ritornare al discorso di prima: ogni app ben progettata è progettata per catturare al massimo l’attenzione degli utenti. Dunque, per ciascuna di esse, il gioco consiste nello sfruttare al massimo i meccanismi della Dopamina a proprio vantaggio.

L’attesa del piacere

Il circuito della ricompensa, infatti, ha caratteristiche ben precise, alcune delle quali vengono egregiamente sfruttate dalle app dei social network.

Una fra tutte queste caratteristiche, forse una delle più interessanti, secondo me, è che l’attesa di ricevere la ricompensa genera essa stessa un rilascio di Dopamina. L’attesa del piacere è essa stessa il piacere, no?

Si tratta dello stesso fenomeno che si verifica quando si gioca alle slot machine o quando si tenta la fortuna con i gratta e vinci: l’eccitazione e la sensazione piacevole iniziano ben prima di vincere il premio. Quando si inserisce la moneta e si tira la leva o quando si acquista il biglietto e si impugna la monetina per grattare, il processo di gratificazione è già in atto. E’ un qualcosa che chi, ad esempio, soffre di dipendenza dal gioco conosce bene.

Ricompensa non prevedibile

E altrettanto bene, sappiamo anche che nel caso si dovesse vincere, l’emozione che si prova è sempre molto forte, anche magari per piccole cifre. E questo è un altro interessante caratteristica del circuito della ricompensa: se la ricompensa difficile da prevedere, se non è noto dopo quanti tentativi arriverà, allora quando finalmente arriva provoca un rilascio di Dopamina ancora maggiore. Anche a supporto di queste affermazioni, esistono molti studi.

Ma se poi il premio non arriva? In fondo, sono ben rare le occasioni in cui si vince con le slot machine o ai gratta e vinci.

Reward prediction errors

Beh a seguito di situazioni del genere, cioè del fatto che ci aspettiamo di ricevere una ricompensa e poi restiamo delusi, che si verifica un altro interessante fenomeno, sempre legato al rilascio di Dopamina, che viene chiamato Reward prediction error.

In pratica, si tratta di un picco nel rilascio di Dopamina, quindi al di sopra della baseline, seguito dopo poco da un crollo, il quale porta invece il valore al di sotto della stessa baseline.

Poco prima di scoprire il risultato, quindi, la Dopamina sale per l’attesa della ricompensa. E noi stiamo bene, ci sentiamo galvanizzati. Poi scopriamo il risultato, che quasi sempre e negativo, e la Dopamina precipita. E noi ci sentiamo molto demoralizzati.

Ma qui viene il bello: se il livello di dopamina è sotto la baseline, è vero che stiamo male, ma il successivo picco, dovuto al successivo azionamento della leva o all’acquisto del successivo gratta e vinci, ci farà sentire molto meglio della volta precedente. E questo perché il dislivello tra un picco negativo e uno positivo è molto maggiore di quello tra la semplice baseline e lo stesso picco positivo.

Ok, sembra complicato, ma immaginalo come un grafico, come le immagini su quelle macchine che si vedono negli ospedali nei film alle quali è collegato il paziente e che monitorano il battito cardiaco: la baseline è nel punto medio dello schermo, gli aumenti nel rilascio di Dopamina sono i picchi verso l’alto, mentre le riduzioni sono i picchi verso il basso. Su un grafico del genere, appare ovvio che la variazione di altezza tra un picco positivo e uno negativo è maggiore di quella tra la baseline e uno qualsiasi dei due picchi.

E i social network?

Ma tornando a quanto accennavamo prima, coma fanno i social network a sfruttare questi meccanismi a loro vantaggio e spingerci a dedicare loro tanta della nostra attenzione? Semplice, le app sono ottimizzate per concatenare il più possibile picchi positivi e negativi, in modo da indurci dei veri e propri boost di Dopamina che siano i più ampi possibile.

L’incertezza del risultato poi, farà il resto, mitigando l’effetto dei picchi negativi nel momento in cui finalmente avremo la nostra soddisfazione, la quale ci apparirà enormemente più grande di tutte le delusioni precedenti. Ancora una volta, si riconoscono i pattern della dipendenza da gioco d’azzardo.

Un esempio di questo comportamento è Instagram: gli algoritmi di notifica dei like di questo social network sono tarati in modo da raggruppare più eventi insieme. In pratica, Instagram non notifica ogni like di ogni nostra foto, storia o reel, appena questo viene apposto, ma, al contrario, trattiene le notifiche fino ad accumulare un tot di like e poi ce ne segnala la presenza.

Il risultato per l’utente è che, magari inizialmente rimarrà deluso dal fatto di aver ricevuto pochissime interazioni, ma poi, in un secondo momento, sarà molto più felice di averne ricevute molte tutte insieme.

Un esempio diverso invece è Facebook, il quale gioca sulla quantità e sull’abbondanza. Con le sue infinite possibilità di interazione, infatti, questo social network cerca di non farmi mai mancare la nostra dose di Dopamina. E allora, praticamente ogni volta che apriamo l’app, possiamo ragionevolmente sperare di trovarvi una qualche notifica (sempre se non ce le spara direttamente sullo schermo).

Gruppi, pagine, amici, giochi, tutti concorrono a incrementare il numerino delle attività che richiedono la nostra attenzione e noi siamo felici perché il nostro livello di Dopamina sale.

Ma le strategie a disposizione di queste app non si fermano certo alle notifiche.

Il refresh manuale dei contenuti, ad esempio, non viene certo implementato perché è necessario al funzionamento di un social come Twitter o Instagram o di un sito di news. Lo scopo, in realtà, è quello di darci l’illusione di avere il controllo, la sensazione di mettere in moto un meccanismo che ci porti ad un risultato. Esattamente con il gesto di tirare la leva di una slot o grattare un biglietto.

Poi c’è lo scrolling infinito, come nel caso di Amazon o di praticamente tutti i social, oppure l’autoplay di Youtube o Spotify che non fa mai fermare la riproduzione. Qui il concetto è come quello di chi sta mangiando e vede il proprio piatto riempito in continuazione. Dal punto di vista psicologico, è più semplice tenere il conto di quanto si è mangiato e smettere quando il piatto è vuoto, mentre diventa molto più complicato se il piatto viene continuamente rimpinguato.

E ancora i colori. I colori possono essere usati per far provare emozioni differenti. Il nostro sguardo viene attirato dai colori brillanti come, ad esempio, il rosso. E, guarda un po’, nel corso degli anni il logo di Instagram, che inizialmente era marrone, si è evoluto aggiungendo colori come il rosso, il giallo, il porpora. Oppure i badge che contengono i contatori delle notifiche non lette, sono di colore rosso per praticamente qualsiasi app.

Conseguenze

In somma, anche se non ce ne rendiamo spesso conto, siamo letteralmente sottoposti ad un bombardamento continuo volto ad attirare la nostra attenzione per il maggior tempo possibile e nel modo più esclusivo possibile. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se tanti di noi manifestano forme maggiori o minori di disturbi collegati all’utilizzo dello smartphone.

Abbiamo accennato all’inizio di questo episodio, ad esempio, alla Nomophobia o alla Sindrome della vibrazione fantasma, ma la lista non finisce certo qui: si parla anche di stress e ansia quando non si ha accesso al proprio dispositivo o, più semplicemente, di quel senso di urgenza di controllare le notifiche come se non farlo rappresentasse un’occasione persa.

Con questo non voglio certo negare che lo smartphone e le varie app, o anche i social network, abbiano innumerevoli effetti positivi sulle nostre vite. Fosse anche solo per le enormi possibilità di interazione che ci garantiscono. Ma non si può neanche ignorare il fatto che tutto l’ecosistema tecnologico in cui operano sia studiato a tavolino per indurre dipendenza.

Certo non parliamo di dipendenze che portano danni a lungo termine, come sono quelle da sostanze pesanti, ma non per questo vanno prese sotto gamba.

Lembke (modifica della baseline)

Nel libro L’era della Dopamina, ad esempio, la dottoressa Anna Lembke spiega in modo molto semplice e chiaro come i rilasci di Dopamina, ripetuti costantemente nel tempo, siano in grado di indurre stati di dipendenza. E io trovo che sia molto interessante conoscere come funzionano questi algoritmi implementati nel nostro cervello, se non altro per saperli riconoscere quando ce li troviamo di fronte.

La Lembke ci dice dunque, come abbiamo già accennato poco fa, il rapporto piacere/dolore è, di fatto, un equilibrio e quindi, tende in modo naturale ed automatico, a rimanere tale. Ad ogni stimolo positivo, che produce rilascio di Dopamina, corrisponde, infatti, come una sorta di riflesso, uno stimolo negativo che si attiva poco dopo e che controbilancia la spinta.

Il problema è che quando lo stimolo positivo si interrompe, quello negativo è ancora attivo almeno per un po’ di tempo. E questo causa un, seppur temporaneo, squilibrio verso il versante del dolore, e ci fa soffrire. Sperimentare questo semplice fatto, ci porta, in maniera istintiva a cercare di non interrompere mai lo stimolo positivo o al massimo di sostituirlo con un altro simile.

Sembra un ragionamento astratto ma è ciò che succede, ad esempio, quando mangiamo una patatina: dopo pochi secondi ne vogliamo subito un’altra. O quando abbiamo appena terminato una partita ad un videogame: abbiamo voglia di iniziarne un’altra. In generale, vogliamo continuare a percepire quelle sensazioni positive, vogliamo evitare che spariscano.

Purtroppo, però, un costante apporto di stimoli positivi, a lungo andare indebolisce l’intensità e la durata del piacere. In pratica, con l’esposizione continua ad un unico tipo di stimolo, la baseline si sposta verso di esso e la quantità e di stimoli necessari per ricevere gli stessi benefici aumenta sempre di più.

E’ così che si sviluppa una dipendenza, qualunque essa sia: da droga, da cibo, da sesso o da smartphone. Semplicemente, servono quantità sempre maggiori per ottenere gli stessi livelli di soddisfazione.

Il reset della baseline

Ovviamente, prima di arrivare a livelli critici, per i quali è necessario consultare uno specialista, è possibile attuare delle strategie per ripristinare il normale funzionamento del nostro circuito della ricompensa.

Quello che la dottoressa Lembke descrive con un reset della baseline è possibile grazie all’astinenza. In linea generale, secondo la sua esperienza, per un tempo di almeno 4 settimane. In tal modo il controstimolo negativo ha il tempo di esaurirsi e l’intero sistema torna in uno stato di equilibrio sano. Certo nel frattempo, il soggetto sperimenterà uno stato di sofferenza pari a quello di piacere da cui sta provenendo, e dovrà resistere.

Ma anche senza voler parlare di casi estremi, le app nel nostro smartphone fanno comunque la parte dei pusher che vengono a bissare alla nostra porta in continuazione, offrendoci le loro dosi di Dopamina a buon mercato.

Dal canto nostro, se sentiamo di stare iniziando a sviluppare comportamenti eccessivi che non vogliamo avere, quello che possiamo fare, prima che la cosa ci sfugga di mano, è attuare una serie di pratiche per almeno mitigare gli attacchi a cui siamo sottoposto.

Per esempio, possiamo disattivare tutte le notifiche delle app non indispensabili; possiamo eliminare i badge con i contatori di messaggi non letti e attività non visualizzate; possiamo impostare le interfacce in bianco e nero; possiamo disattivare lo sblocco veloce tramite impronta o viso; e se proprio vogliamo osare, possiamo provare a lasciare lo smartphone in un’altra stanza quando non ci è indispensabile.

Ma al di là di qualsiasi consiglio io ti possa dare, come al solito, il punto fondamentale è quello di utilizzare lo strumento con consapevolezza, in modo da essere noi ad utilizzare lui e non lui ad utilizzare noi. Quindi, la prossima volta che prendiamo in mano lo smartphone, proviamo a chiederci se farci guidare da un mucchio di notifiche è veramente ciò che vogliamo fare.

Conclusione

Bene, spero come al solito di averti condiviso qualche ragionamento interessante. Se così fosse, ti chiedo di condividere a tua volta questo podcast con un amico o un’amica. Su che dobbiamo crescere per fare belle cose.

Ti ricordo, poi, che se hai intenzione di partecipare al laravelday di quest’anno puoi utilizzare lo sconto che trovi in descrizione per acquistare il biglietto, dato che Pensieri in codice è partner dell’evento. E inoltre, se ti va, possiamo vederci per un caffè e due chiacchiere il giorno prima, il 16 Novembre, a Verona. Scrivimi che ci organizziamo. Trovi i miei contatti sul sito pensieriincodice.it

E direi che per oggi è tutto. Ci sentiamo al prossimo episodio e non dimenticare che un informatico risolve problemi, a volte anche usando il computer.


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